La primavera ci circonda e, tra una giornata in ufficio e una gita fuori porta, molti di noi iniziano già a percepire la sensazione dell’estate che si avvicina: il mare, le passeggiate in montagna, le serate passate a ballare o a leggere un libro in terrazza, una pizza in giardino o un gelato sul bagnasciuga.
In città le vetrine si riempiono di vestiti colorati, la tv ci fa sognare la preparazione della valigia per le tanto agognate ferie e i cartelloni pubblicitari ci invogliano a comprare l’oggetto di cui “non riusciremo sicuramente a fare a meno” la prossima stagione.
Ma la domanda è: ne abbiamo davvero bisogno? E, soprattutto, quella maglietta così simile a quella che indossano migliaia di persone che ci camminano a fianco, che impatto ha sull’ambiente?
Da quando la cosiddetta fast fashion ha invaso i negozi di tutto il mondo, resistere alla tentazione di spendere una manciata di euro per un nuovo capo da appendere nell’armadio è diventato davvero difficile ma, per capire a fondo un fenomeno ormai così radicato nel tessuto sociale, va capito bene dove e come è iniziato tutto.
Che cos’è la fast fashion
L’espressione “fast fashion” fa riferimento alla produzione di capi di abbigliamento a basso costo e dal prezzo contenuto che copiano gli ultimi stili delle passerelle e vengono immessi rapidamente nei negozi per sfruttare al massimo le tendenze del momento.
Il modello prevede la progettazione, la produzione, la distribuzione e la commercializzazione di capi di abbigliamento in tempi brevi, grandi quantità e prezzi molto ridotti.
Lo scheletro nell’armadio
Il settore della moda ha un impatto considerevole sull’ambiente che riguarda l’intero ciclo produttivo.
Per farsi un’idea, basti pensare che è responsabile del consumo di circa un decimo delle intere risorse idriche globali. Vista da un’altra prospettiva, basti pensare che occorrono 10.000 litri d’acqua per produrre un chilogrammo di cotone o circa 3.000 litri d’acqua per confezionare una camicia del medesimo materiale.
Inoltre, complice il fatto che molte aziende hanno esternalizzato le attività produttive in paesi in cui le normative di protezione ambientale sono più labili, se non addirittura assenti, è facile comprendere come anche l’inquinamento non sia da sottovalutare: la tintura dei tessuti richiede infatti l’uso di sostanze chimiche tossiche che finiscono facilmente in laghi, fiumi e oceani danneggiando interi ecosistemi e con ripercussioni serie anche sulla salute di popolazioni già vulnerabili.
La fast fashion, infatti, non ha solo un enorme impatto ambientale ma pone anche problemi sociali, soprattutto nelle economie in via di sviluppo. Secondo l’organizzazione no-profit Remake, l’80% dei capi di abbigliamento è confezionato da giovani donne di età compresa tra i 18 e i 24 anni.
Un report elaborato nel 2018 dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti ha evidenziato come l’industria della moda, e in particolare quella della fast fashion, sfrutti il lavoro minorile in paesi come Argentina, Bangladesh, Brasile, Cina, India, Indonesia, Filippine, Turchia, Vietnam e molti altri, dimostrando come, nel nuovo millennio, i profitti prevalgano ancora sul benessere umano.
Tra gli impatti sull’ambiente, merita una nota anche il problema delle microplastiche contenute nei materiali sintetici utilizzati al posto delle più costose fibre naturali che, oltre a danneggiare ecosistemi terrestri e acquatici, sono anche responsabili di una maggiore quantità di emissioni di gas ad effetto serra.
Per l’esattezza, circa il 35% di tutte le microplastiche trovate nei mari e negli oceani di tutto il mondo proviene proprio dall’industria della fast fashion e poiché queste microfibre di plastica non possono essere rimosse, finiscono nella catena alimentare umana attraverso la vita acquatica, causando numerosi effetti negativi anche sulla nostra salute.
Nonostante l’impatto della fast fashion non sia più un mistero, un report pubblicato nel 2019 indica come a livello globale siano state acquistate 62 milioni di tonnellate di vestiti che, inesorabilmente, dopo una stagione finiscono nelle discariche. Il motivo è dovuto non solo ad un comportamento errato da parte del consumatore ma anche alla qualità scadente dei materiali utilizzati che, qualche mese di utilizzo, si usurano e diventano spesso inutilizzabili.
Si calcola che a causa del gran numero di tagli eseguiti sui tessuti per realizzare ingenti quantità di indumenti, circa il 57% dei materiali viene sprecato e mai riutilizzato.
Un’abitudine in netta controtendenza con le linee guida per un’economia circolare ma, soprattutto, un modello pericoloso per il Pianeta e per l’economia globale che, per risollevarsi, deve assolutamente puntare quanto prima ad un modello sostenibile.